di Pier Luigi Sacco
da Diario Gerra 2009 – vol. 1
Come in qualunque altro mercato, siamo stati abituati a pensare che in campo culturale esistono l’offerta e la domanda: chi produce contenuti, e chi ne usufruisce. Da un lato gli artisti, i musicisti, gli attori, i registi, i designer, dall’altra il pubblico, la clientela, che giudica e che sceglie. In mezzo, i gatekeepers, i guardiani della porta, coloro che elaborano e applicano i criteri di selezione che permettono agli aspiranti produttori di accedere alle opportunità di cui hanno bisogno per acquisire un reale diritto di cittadinanza nell’arena culturale che hanno scelto. Questo modello “classico”, che ha in effetti regolato il funzionamento dei mercati culturali lungo tutta l’età industriale, sta andando parzialmente in crisi, anche se non nelle stesse modalità e con gli stessi tempi in tutte le arene culturali.
Da un lato c’è l’arte contemporanea, dove il divario se possibile tende piuttosto ad aumentare che a ridursi: per quanto il numero degli aspiranti artisti cresca a dismisura, ed esista quindi un sempre più vasto pubblico dell’arte che in realtà aspira ad un ruolo più attivo e propositivo quando non ad un vero e proprio protagonismo, alimentato dalla crescente mediatizzazione dello star system dell’arte, l’accesso alle reali opportunità produttive e agli spazi espositivi che forniscono una reale legittimazione si fa sempre più drastico e selettivo. è vero che gli artisti sono sempre più orientati alla creazione di dispositivi basati sul coinvolgimento, ma anche quando il progetto artistico chiama in causa centinaia o addirittura migliaia di persone, è sempre l’artista-artefice che fa la regia, che detta le regole, che definisce le coordinate di senso. Il senso dell’arte sta infatti nelle scelte dell’artista, che individua un percorso di significato, se ne assume la responsabilità e rimane il giudice ultimo di ciò che è possibile fare o meno all’interno del proprio codice estetico. Se si abolisse questa clausola, l’arte perderebbe istantaneamente di significato e di interesse.
Dall’altro lato ci sono le varie industrie culturali, basate sulla riproduzione illimitata di una matrice prodotta dal musicista, dal regista o dallo scrittore, i cui prodotti circolano in migliaia o addirittura in milioni di copie e definiscono quindi una propria vita sociale che l’autore non può, anche volendo, controllare o anche soltanto indirizzare. è in questo ambito che assistiamo allora alla progressiva sparizione del divario tra autore e pubblico: mentre l’opera d’arte visiva esiste in un’unica o in pochissime copie che restano sempre all’interno degli spazi deputati e sono accessibili soltanto attraverso le modalità stabilite dall’artista (con qualche limitato margine di arbitrarietà per gli acquirenti privati che tengono le opere in casa o comunque nei loro spazi non aperti al pubblico), le opere letterarie, cinematografiche o musicali sono di fatto manipolabili ed interpolabili ad libitum, grazie alla tecnologia che ne permette una circolazione ed una rielaborazione pressoché illimitate.
È sufficiente il personal computer ed un po’ di hardware e software di facile accessibilità per poter produrre oggi un brano musicale, un libro, un video o addirittura un film. Persino l’organizzazione dei propri ricordi personali, un tempo confinata nello spazio delle proiezioni casalinghe di filmini o di diapositive, può divenire oggi un fatto culturale, oggetto di una attività editoriale, dotato di un proprio pubblico potenziale, che può andare anche al di là del circolo degli amici e dei conoscenti. E con quello stesso personal computer, con quell’hardware e con quel software si può inoltre reintervenire sul materiale prodotto da altri per rimontarlo, attribuirgli nuovi significati, evidenziarne implicazioni inedite. In questo contesto non esistono più l’offerta e la domanda, due categorie distinte di agenti, ma una grande comunità di pratica, con le sue regole e i suoi riti collettivi, che partecipa continuamente ad un processo condiviso di produzione, elaborazione e circolazione dei contenuti. Non c’è più bisogno dei gatekeepers per decidere cosa può arrivare all’attenzione degli altri e cosa no. Tutto è accessibile, e quello che conta veramente è la capacità di orientamento nell’oceano delle possibilità: è la competenza cognitiva che permette di muoversi a proprio agio nello sterminato campo di cellule di senso che costituisce oggi la struttura della maggior parte delle arene culturali che determina l’identità, il riconoscimento sociale, l’autorevolezza di ogni singolo membro della comunità. Gli attori tradizionali della preesistente organizzazione di mercato si affannano come possono a difendere le vecchie regole, che sempre meno vengono percepite come diritti e sempre più come privilegi: il copyright, che restringe sostanzialmente l’accesso e la rielaborazione dei contenuti prodotti, appare un vincolo innaturale, e non tanto dal punto di vista della difesa del diritto a ricevere un corrispettivo economico e soprattutto un riconoscimento di paternità di determinati contenuti, quanto soprattutto da quello della pretesa di sottrarre quei contenuti al circuito della circolazione e della rielaborazione. Si tratta di una battaglia persa in partenza: la tendenza è chiara, ed è soltanto questione di tempo. Esistono intere comunità che da tempo hanno riconosciuto che la transizione è di fatto già avvenuta e si sono date nuove regole per governarla nell’interesse collettivo.
Il prototipo di questo nuovo modello di organizzazione della cultura, che per analogia a quanto accade nelle modalità sociali di uso del web definiamo Cultura 2.0, è la DJ Culture: un’arena culturale nella quale le singole unità di contenuto (i brani musicali) sono fin dall’inizio concepiti per essere montati liberamente da altri in aggregazioni più complesse e potenzialmente illimitate. Un’arena nella quale la rielaborazione di un brano da parte di altri non è soltanto permessa, ma prevista ed istituzionalizzata: la reputazione di un produttore dipende appunto dalla quantità e dalla qualità dei remix realizzati da altri produttori. All’interno di questa arena, il dato che conta non è quello della vendita delle copie, che sono spesso pochissime (se confrontate con i numeri della produzione della mass music) e sono spesso acquistate direttamente dagli altri DJs per utilizzarle nei propri set. Quello che conta è appunto la circolazione digitale dei set (che è in larga parte gratuita e liberamente accessibile dalla rete) e la circolazione fisica nei club, l’energia e il gradimento che vengono liberati dalla performance dal vivo. è il qui e ora della performance, del rito collettivo, che produce senso e valore.
La Cultura 2.0, che il DJing di oggi incarna così bene, è una nuova strategia di evoluzione culturale, e proprio l’esempio della musica la illustra in modo particolarmente evidente. Di fronte ad una ricerca musicale condotta secondo i tradizionali canoni (un musicista-autore che elabora da solo e per proprio conto il proprio materiale), da tempo in difficoltà nel proporre percorsi che non siano una rielaborazione più o meno evidente e spesso ben poco emozionante del già fatto, la cultura del DJing, totalmente antiaccademica, informale, inclusiva (pressoché chiunque abbia uno standard minimo di professionalità può postare 37 le proprie produzioni anche nei più grandi e importanti canali di distribuzione), sta ormai sperimentando nelle sue punte più innovative percorsi molto avanzati (poliritmia, superamento della tonalità, nuove strutture), con una vitalità ed una capacità inventiva che retrospettivamente sarà forse riconosciuta come la vera musica di frontiera di questa epoca, capace di parlare ad una comunità molto ampia senza perdere in tensione progettuale e capacità di scoperta.
L’utopia del tutto pratica e realistica di una società e di una economia della conoscenza fondata sulla diffusione generalizzata delle competenze per l’accesso e l’elaborazione di contenuti culturali passa anche, e forse soprattutto, dalla rivoluzione della Cultura 2.0. Godiamocela, abbiamo il privilegio di vederla nascere.