di Stefania Carretti
Da Diario Gerra 2009, vol. 7
Quando ho potuto ho suggerito alla gente di tenere il diario, il che mi è sempre sembrato una specificità dei miei concittadini, i quali ripugnano la diaristica e si rifugiano nelle idee generali al di fuori di un’esperienza propria e controllata
(…) Desidero far avvicinare al diario come presa di coscienza di se stessi e della propria importanza.(Cesare Zavattini)
Guardare indietro a ciò che è appena stato, riraccontare l’ordinario, il quotidiano, riscrivere per trovare un senso e una ragion d’essere al passato recente, insieme alla consapevolezza dell’importanza di ciò che si è compiuto. Un modo in fondo per creare identità e contemporaneamente una sorta di fiducia rivolta al futuro.
Senza ricorrere a giustificazioni psicoanalitiche, Cesare Zavattini definisce in questo modo il “bisogno di diari”, un bisogno che lui avrebbe voluto come contagioso: creare diari che ne provocano a loro volta altri. Tanto che l’ eclettico intellettuale di origini luzzaresi aveva in animo, attraverso una summa di diari da far tenere ad un migliaio di italiani, di arrivare a comporre un’immagine dell’Italia a lui contemporanea. Un modo per leggere il pubblico attraverso il privato, il generale attraverso il particolare, il grande attraverso il piccolo. Zavattini ci vuole mettere in guardia di fronte alla tentazione di rifuggire l’esperienza singolare, apparentemente insignificante al confronto con le idee generali, della quale però possiamo parlare con cognizione di causa perché “controllata” tramite il nostro vissuto. È in particolare nei suoi “concittadini” che Zavattini riconosce questa tentazione di rifugiarsi nelle idee generali e il conseguente bisogno di scrivere diari per ritornare sul singolare.
Ci sentiamo perciò – non solo in quanto suoi concittadini, seppure postumi – di accogliere questo appello a distanza di alcuni decenni da quando fu pronunciato e di provare a fornire una declinazione “pubblica” di uno strumento strettamente privato quale è il diario.